Verso fuori.

Zonbi ex Machina

“Quanto sono stanco!”, disse G mentre usciva dall’ufficio. Erano le dieci di sera passate e una pioggerellina fredda, leggera, molto bavarese, era appena finita di cadere dalle basse nuvole grigie e rigonfie. “Dove sarà andato K?”, si chiese, guardandosi attorno e cercando il collega cui aveva promesso di dare un passaggio. Era scomparso. “Poco male”, pensò, “Sarà andato in bicicletta al portone del castello. Sono così stanco…”

La portiera si chiuse pesante dietro G, ed eccolo, fu ancora una volta al volante, di nuovo presente, adesso. “Un giorno o l’altro finirà pure questo andirivieni”, pensa, mentre avvia il motore e inserisce la retromarcia. Si fa strada un’idea nella sua testa: prendere l’autostrada. “A quest’ora non ci dev’essere nessuno, così arriverò a casa prima e potrò finalmente dormire…”

E sia. Svolta a destra nel Ring, che a quell’ora è effettivamente poco trafficato, passa sul ponte e sotto il cavalcavia, seguendo la carreggiata il cui colore scuro non si distingue, nella notte, dal resto del paesaggio. Ma invece di svoltare a destra per lo svincolo della statale, prosegue dritto, verso la scultura.

La scultura è un grande manufatto nero, di fibra di carbonio, dalla forma curiosa, che sembra essere allo stesso tempo dritto e storto, curvo e piano, concavo e convesso. Sta al centro di una grande rotatoria, è alto trenta metri, fatto di grossi tubi cilindrici e il tram della linea diciassette ci passa dentro.

Passata la scultura, G vorrebbe proseguire nel tunnel e prendere lo svincolo sotterraneo, ma… “Che diavolo… è chiuso?!”. Due grandi transenne, illuminate da lampeggianti rossi, ne impediscono l’accesso, e le altre macchine, pure sorprese, sono costrette a seguire la strada in superficie, formando una breve coda. G impreca a bassa voce.

Quanto potrà essere lunga una coda alle dieci e venti di sera? Eppure le macchine procedono lente, come bruchi di processionaria in fila indiana. Due svoltano a destra, una a sinistra, e presto il mistero è chiarito: è il 59, l’autobus che va in stazione, a rallentare il traffico. Frena e si ferma ad ogni fermata, anche se nessuno vi sale o scende, procedendo anche nei tratti liberi a non più di trenta all’ora. G inizia ad essere nervoso. “Forse l’autista ha sonno? Io ne ho certo di più!”, prorompe, “Già, sono proprio stanco…”.

Procedendo per due chilometri ad un’andatura che farebbe onore al più veloce dei bradipi, raggiunge finalmente l’incrocio. “È fatta”, dice a se stesso, “Ora svolto a sinistra e in un baleno sono a casa”. Ma la corsia di sinistra è occupata da un furgone blindato della Polizia, contromano. Bagliori blu elettrico saettano dal veicolo e da un suo gemello, posto qualche metro più in là, a guardia di due grosse auto schiantatesi contro un lampione. “Ci mancava anche questa, devono aver fatto un frontale! A quest’ora di sera, poi. Ma che sta succedendo in giro?”

G prende allora la corsia centrale per proseguire. In effetti, non può fare altro, ma il semaforo per andare dritto diventa verde prima di quello per svoltare. G mette una timida freccia a sinistra, ma diventa subito chiaro che svoltare è impossibile, altre macchine stanno percorrendo la carreggiata nell’altro senso. “Non ci posso credere, m’hanno incastrato! E io che volevo prendere l’autostrada per arrivare prima!”, esclama da solo. Nel mentre, il 59, cui s’era affiancato per svoltare, lo supera di nuovo sulla destra e rallenta immancabilmente per ossequiare zelante la successiva fermata, deserta. L’autobus è seguito da una macchina di lusso che sembra essere convinta di potersi flettere come un giovane giunco acquatico. Così, senza ostentare ansia o preoccupazione, sorpassa il bus tagliando la strada a G, che reagisce malamente frenando di soprassalto e strombazzando il clacson. Ha solo il tempo di vedere lo schermo di un telefonino che viene gettato sul sedile del passeggero, e poi l’auto-giunco o auto-canna che dir si voglia scivola via lesta nel tunnel del Ring. “Brutto idiota… No, questa sera non è proprio normale! Ora dovrò fare tutto il giro, di nuovo…” risuonano i ringhi di G nell’abitacolo.

Prima uscita a destra, risalita, semaforo rosso. L’attesa si protrae per qualche minuto e G è sempre più insofferente. Finalmente si riparte, svolta a destra, ferma!, un pedone sta attraversando, ripartenza, si accende la spia gialla della riserva di carburante: la macchina dice di averne ancora per ottanta chilometri. Giù nel sottopasso della ferrovia, su all’incrocio della stazione, semaforo rosso, attesa, ripartenza, destra, cambio corsia, semaforo rosso, lunga attesa, la macchina spegne automaticamente il motore, rosso, giallorosso, il motore si riaccende, verde, via!, destra, breve rettilineo, coda. “Non ci posso credere, hanno intasato l’intero incrocio!”, esclama G disperato. Ed in effetti è proprio così: ha fatto un giro di quattro chilometri svoltando tre volte a destra ed ora è di nuovo all’incrocio di prima, ma stavolta gli basterebbe andar dritto. Ma pare che a tutti gli altri sia venuta la sua stessa idea (l’hanno seguito?) o forse mentre faceva il circuito hanno chiuso anche il secondo tratto del tunnel?

Il semaforo diventa verde, ma nessuno passa, l’incrocio è ancora occupato dalle macchine provenienti dall’altro senso che vogliono svoltare a sinistra. Poi è il turno di quelli di destra, che vorrebbero solo tirare dritto. Al verde successivo solo una macchina, quella di fronte a lui, riesce a passare. Nell’attesa successiva lo affianca a destra un taxi il cui tassista turco non si fa alcuno scrupolo e lo supera entrando nell’incrocio a semaforo rosso per poi mettersi di sbieco di fronte a lui, senza complimenti. G è stato colto da apatia e non ha neppure la forza di reagire a colpi di clacson. Ed è nuovamente verde, e stavolta va, passa dopo il turco, che sian maledette le steppe altaiche, accelera, sembra libero, ma deve subito fermarsi ad un semaforo rosso. Il semaforo è rosso perché è di fronte al deposito dei tram, ovvero alla tana dove questi bizzarri ferrofidi pantografati si rifugiano per dormire la notte. Un primo tram striscia placido verso il suo giaciglio di ferraglia, seguito da un secondo, che sembra impaziente di andare a dormire. “Quanto sono stanco anch’io…”, sospira G nel frattempo. Scatta il verde e il taxi ottomano parte a razzo per arrestarsi un paio di metri più avanti, giacché le ultime spire del secondo ferpente occupano ancora la strada dinnanzi a lui.

“È fatta?” si domanda G, incredulo. “Col tempo che c’ho messo ad arrivare fin qui, sarei tornato a casa per la strada statale due volte.” Ma pare sia la volta buona, e finalmente entra in autostrada e corre veloce verso est.

“Sarà ancora in piedi il ponte sull’altra autostrada? O crollerà mentre ci passo sopra? Meglio ‘toccare ferro’… anzi, meglio di no, altrimenti vado addosso al guardrail!”. Scorrono le uscite rapide… e G non ha mai capito perché in Germania tutte le strade portino ad Ausfahrt. Alla fine ci siamo, attraversa un paio di campi bui, e deve persino usare i fendinebbia perché una bava di vento ha alzato l’umidità della vicina palude e la agita come una polverosa ragnatela strappata.

“Ci sarà un camion di barbabietole rovesciato nella piazza del mercato? Si aprirà il portone automatico? Graffierò la macchina contro un pilastro? Sarà allagato il piano interrato? Troverò quattro multe di un altro nella posta? Mi si spezzeranno le chiavi di casa dentro alla serratura? Per Giove, quanto sono stanco!!”, si diceva G, ridendo tra sé e sé dell’improbabile avventura appena trascorsa.

Sì, il portone funzionò e la macchina scese decisa la prima rampa del garage sotterraneo, ma appena raggiunto il primo piano interrato si fermò di colpo. Figure dall’aspetto orribile si muovevano rantolando nella tetra penombra, le loro immonde forme appena rischiarate dai fari della macchina e dalla fioca luce sfarfallante di una lampada a fluorescenza. Il panico colse G, che guardandosi indietro vide il portone richiudersi in cima alla rampa, dietro di lui.

Nulla da fare, i mostri avanzavano verso la macchina, e mica poi tanto lentamente come li fanno nei film. Girarsi e uscire di nuovo con una manovra sarebbe stato impossibile, l’avrebbero certamente circondato prima, e chi sapeva poi se quei demoni infernali non avrebbero potuto forzare le porte dell’auto ed entrarvi. Per aprire il portone di uscita, poi, G avrebbe dovuto abbassare il finestrino e tirare la cordicella di plastica che azionava l’interruttore. Questa pendeva beffarda, come se nulla fosse, fuori dall’abitacolo, appena smossa da una debole oscillazione.

Non aveva altra scelta, ingranò la marcia, diede gas al motore e partì a tutta birra nel garage, investendo mostri ovunque e controsterzando per fare meglio le curve sulla superficie liscia e fredda del cemento. Tre volte a destra, poi una derapata a sinistra. I mostri si scansano, altri cadono a terra gridando (e con cosa poi? Se son morti!), si agitano, ruggiscono. G guarda davanti: di fronte a lui, la rampa di uscita, in cima, il portone, chiuso. La cordicella ad anelli rossi e bianchi pende decisamente più agitata di prima ma ugualmente beffarda a pochi centimetri dal finestrino, come la colonna vertebrale rinsecchita dello scheletro d’un impiccato.

G non pensa neppure più, tira il freno a mano, sfonda il pedale dell’acceleratore, lascia la frizione col motore che va a seimila giri, molla il freno e parte di gran carriera su per la salita, fracassando il portone d’uscita. Fuori! Fuori! Finalmente fuori! E via a tutta birra per le stradine deserte del paese, riattraversando i campi nebbiosi, riguadagnando l’autostrada e la libertà, verso sud, verso l’Italia e la vita!

Fu dopo un quarto d’ora, mentre attraversava la cupa foresta di Hofolding, che la macchina iniziò a brontolare. Non accelerava più, stentava a tenersi alla velocità di ottanta all’ora, perdeva potenza. E incomprensibilmente grande fu l’orrore di G quando si rese conto che la benzina era finita. La macchina, unico mezzo della sua salvezza, si arrestò alla fine nel bel mezzo dell’autostrada, e a nulla valsero i tentativi e le suppliche di G per farla ripartire. Si limitò infine ad accasciarsi obliquamente sul volante, azionandone il meccanismo di blocco di sicurezza. “Ero solo tanto stanco…” trovò solo la forza di mormorare G.

Precedente

M27 nella Volpetta

Successivo

La danza di Venere

  1. Consiglio spassionato: evitare di passare in centro a Monaco in macchina quando si è stanchi. Si possono fare incontri imprevisti.

  2. Lucia

    Fantastico!!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Aggiungi un'immagine

Powered by WordPress & Tema di Anders Norén